Se dico “brand with a purpose”, qual è la prima associazione spontanea?
Ho posto la stessa domanda su LinkedIn: invito chiunque a provare a rispondere istintivamente e poi, al termine di questo articolo, pensare se la risposta è ancora soddisfacente.
Con questo articolo, cerco infatti di rispondere alle domande più frequenti in cui mi sono imbattuta in merito al purpose. Tento quindi di mettere ordine intorno a questo concetto, di tracciarne i confini, i risvolti, le potenzialità, ma anche i tranelli. Guardo al futuro del purpose per capire come includerlo nelle strategie di brand, evitando gli scivoloni.
Inizio con il raccontare di che cosa si tratta.
“Purpose” può essere visto come sinonimo di “scopo”, ma il suo significato è molto più alto. Il purpose di un brand è quell’insieme di valori e di ideali attraverso i quali un’azienda dimostra di perseguire uno scopo più “nobile” del fatturato, o comunque al di fuori della logica del profitto.
Tutti i brand hanno un purpose?
Tutti i brand hanno uno scopo, ma non tutti i brand hanno un purpose. Sono due gli errori più comuni che solitamente si fanno quando si vuole inquadrare questo concetto.
Purpose: il primo errore
Il primo è quello di confondere il purpose con l’obiettivo, ovvero con la vision, che si traduce con il sogno del brand o dell’azienda nel futuro più lontano, tra i 10 e i 30 anni. La vision è dove il brand vuole vedersi arrivare. Questo sogno è tendenzialmente endemico, rivolto verso l’interno, verso il proprio business e i suoi consumatori. Il purpose affonda le sue radici molto più in profondità, ovvero nei valori del brand.
Sono proprio i valori della marca a fornire un insight sul grado di maturità di un brand rispetto al purpose.
In generale, nella mappatura dei valori è molto utile rifarsi al modello di Barret, che si ispira alla piramide di Maslow e propone una gerarchia dei bisogni umani: dalle condizioni basiche per vivere, fino alla sfera della spiritualità.
Il modello rappresenta 7 livelli di consapevolezza, una via di evoluzione possibile per gli individui, ma anche per i brand.
Questo asset è utile come strumento diagnostico per capire qual è la motivazione di un brand, a cosa aspira e se è pronto per definire un purpose. Viceversa, può essere ancora troppo rivolto a sé stesso per approcciare il tema, ossia i suoi valori si collocano nel primo intervallo (livelli 1-3).
Quando il purpose c’è, value, vision e mission sono tutti ineffabilmente allineati sotto il suo cappello e ciascun elemento valoriale è una chiara manifestazione dello stesso.
Un esempio? Tesla!
Purpose statement:
Accelerare l’adozione di sistemi di trasporto sostenibili.
Vision statement:
Usare la cultura tecnologica, il design e l’innovazione per ridurre l’uso dei combustibili fossili.
Mission statement:
Creare veicoli elettrici e le consequenziali infrastrutture che li supportino.
D’altro canto, se il purpose non coincide con i valori, all’esterno si percepisce. Il rischio è che le sue azioni verso l’esterno si traducano in una qualche forma di “washing”, con l’illusione di costruire da subito crescita e guadagno.
Dice bene Mark Ritson2:
“Marketers are still fixated on the notion that purpose drives growth, when the whole point is that for most brands it will cost money and require sacrifice. […] Those brand that fail to identify and articulate their purpose may survive in the short term, but over time, people are likely to demand more”.
Purpose: il secondo errore
Il secondo errore, invece, consiste nel paradigma che vede nel purpose un risvolto unicamente sociale e marcatamente rivoluzionario, come se fosse un “attivismo-a-tutti-i-costi”.
L’ammonimento di Graham Robertson in questo commento LinkedIn ben riassume il secondo misunderstanding a cui si può andare incontro.
Gli risponde Phillip Oakley, estremizzando, ma cogliendo esattamente il punto.
Come si costruisce un purpose?
Ho anticipato che il purpose non si costruisce a livello di marketing, perché affonda le sue radici nei valori del brand. Questi non rispondono ad un prodotto di comunicazione e non vengono modificati dal posizionamento, ma sono unici e intimi.
Il brand purpose non è una strategia e non è neanche il contenuto della prossima campagna di Advertising. Ma allora che cos’è?
Justine Welsh3 spiega che il purpose si realizza grazie a 3 driver principali:
- Il tempo, ovvero la valuta di scambio della vita.
- La motivazione, cioè quello che ci muove ogni giorno.
- L’ambiente circostante, ovvero ciò di cui ti circondi ogni giorno.
La definizione di purpose è infatti un insieme elementi imprescindibili: una congiunzione e un incastro perfetto di asset che, se funziona, ne determina o meno la presenza.
Qualche tempo fa, durante un brainstorming tra colleghi, ho appurato quanto il concetto di purpose sia simile a quello di Ikigai.
L’Ikigai è frutto di un pensiero squisitamente giapponese, ultimamente sulla bocca di tutti grazie a libri come quello di Bettina Lemke4. Può essere tradotto con “la propria ragione di vita”, il motivo di esistere, il motore della vita. È il corrispettivo personale del purpose.
Graham Robertson ha notato questo collegamento prima di me e ha utilizzato il modello di costruzione dell’Ikigai traslato proprio sul purpose5.
Ne risulta che il purpose è la risposta intersezionale a 4 domande necessarie e propedeutiche:
- Di cosa ha bisogno il mercato?
- Che cosa appassiona il mio brand?
- Quali sono i core value che descrivono il mio business?
- Per cosa i consumatori sono disposti a pagarmi?
Se rispondo a queste 4 domande avrò trovato il purpose di un brand!
Ho un purpose, e poi?
Un brand con un purpose è cosa rara: va trattato con cura, comunicato con orgoglio.
L’ho già detto: il purpose non è una strategia. Può però essere usato strategicamente allo scopo di determinare il posizionamento di un brand, sovrapponendosi alla sua USP (unique selling proposition), soprattutto quando si presenta come realmente differenziante.
La sintesi estrema di un purpose usato a scopo di posizionamento si traduce nel pay-off di un brand, ossia in un claim che non ha la pretesa di presentare il prodotto, ma piuttosto di presentare il proprio “credo” (esempio: Apple – Think Different).
Il purpose, poi, è il motore che muove il brand activism: è l’impegno e il coinvolgimento dei brand verso cause di rilevanza sociale, ambientale, politica ed economica e che si concretizza attraverso campagne di sensibilizzazione mosse dalla comunicazione, dalle iniziative e dai progetti ad hoc.
Questo genere di azioni trova sicurezza nell’accresciuta sensibilità dei consumatori e nella loro presa di coscienza sulla realtà dietro un brand, come dimostrato da questo e da altri molteplici studi operati su un pool globale di persone:
Secondo Razorfish, l’82% dei consumatori afferma di essere più propenso a comprare brand che si spendono per un purpose o per una mission rilevante.
Spesso però sono questi dati e questi esempi di colossi come Dove o Patagonia a creare l’illusione che il brand activism sia mera strategia, un modello “copia-incolla” per ottenere crescita e guadagno.
Andrebbe prima compreso che il purpose stesso richiede energia e investimenti per essere alimentato, che solo brand focalizzati SOPRATTUTTO sulla propria crescita possono permettersi. Parafrasando, è la crescita economica a permettere una buona azione, soprattutto in tempi di recessione.
“Purpose is not usually the path to greater profits and better growth. That handy, naïve, entirely specious narrative needs to end. The purpose of purpose is purpose. You deliver it because you believe in it. You deliver it even when it costs you something – everything, even your whole company.”6
Fonti
2 www.marketingweek.com/patagonia-purpose-of-purpose
4 www.amazon.it/Ikigai-metodo-giapponese-Trovare-essere/dp/8809859391