Holistic Digital Strategy: 3 riflessioni che non possiamo ignorare nel 2022

Il concetto di strategia di comunicazione olistica non è nuovo. In qualunque strategia di marketing strutturata, una visione ampia e comprensiva è l’unica possibile. Philip Kotler e Kevin Lane Keller scrivono:


“Il concetto di marketing olistico si basa sullo sviluppo, la progettazione e l’implementazione di attività di marketing che riconoscono l’ampiezza e le interdipendenze. Il marketing olistico riconosce che “tutto conta” nel marketing e che per giungere alla soluzione migliore è necessaria un’ampia prospettiva integrata.”
 

Semplificando la questione, in passato si riteneva che “strategia multicanale” fosse un sinonimo di holistic strategy. In realtà, questo è un raffronto parziale, perché la prospettiva olistica non si limita a considerare i canali di comunicazione per rendere una pianificazione efficace e completa.

Una strategia di comunicazione olistica, infatti, comprende e supera anche una delle più note trinità del content marketing: right content, right delivery e right timing e suggerisce che per formare un mix perfetto e creare connessioni di valore tra brand e persone, una risorsa come la consumer pathway non va più intesa come una linea retta, con un principio e una fine uniti da un processo lineare, ma come un cerchio soggetto ad interferenze e processi complessi. Basti pensare a come le combinazioni di stage della consumer pathway e dell’awareness si influenzino l’un l’altra.

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Nell’ultimo biennio, fenomeni globali come la pandemia, e sociali come il clickactivism, invitano a inglobare tre nuove riflessioni che, a mio avviso, non possono più prescindere lo sviluppo di strategie di comunicazione digitali realmente complete.

 

1. Il valore del contesto

Questa più che mai è l’epoca del collasso del contesto. In una content strategy attuale, meme, gif e reaction sono elementi che diventano significanti di un linguaggio universale basato sull’espressione di significati immediati, emotivi, piuttosto che di prese di posizione ponderate.

Una strategia di comunicazione si trova quindi a comprendere questi elementi di facile fruizione, fluidi, e per questo veicoli di fenomeni come le fake news, in cui qualsiasi utente può diventare parte attiva nella creazione di valore, ma le narrazioni, tra cui i brand, appaiono invece svuotati di significato e in posizione passiva.

Con questa linea di azione, in pratica, la comunicazione risulta essere molto orizzontale perché parla a “tutti”, ma molto poco verticale perché non costruisce il valore del brand.

In questo scenario, re-impadronirsi del contesto diventa fondamentale per costruire brand memorabili e per nutrire attivamente la propria community nell’ottica del dare. Per riprendere le parole di Amanda Palmer – artista poliedrica, musicista, cantante e TED Talker – serve “smettere di essere statue”.

“Se vogliamo ottenere qualcosa da un gruppo di persone, che si tratti di fan, membri o lettori, dobbiamo prima offrire loro qualcos’altro. Offrire cosa, però? Tempo, lavoro e conoscenza, per esempio. Ma non solo: anche apertura all’ascolto, al dialogo, alle idee, a nuove forme di collaborazione. Essere generosi significa smettere di essere statue.” (Fonte: Ellissi)

Per ottenere questo risultato, un passaggio a mio avviso imprescindibile è la combinazione del contesto digitale con quello culturale. La variabile socio-culturale diventa un fulcro con cui ogni strategist dovrebbe lavorare: da essa scaturisce un ideale, anche l’ideale di un brand. Ed è da qui che possono prendere vita delle strategie impregnate di significato, proprio perché calate nella realtà, ma anche e soprattutto nel vissuto e nel percepito soggettivo.

Un approccio per rinverdire l’importanza del contesto può essere quello teorizzato da Ogilvy nella schematizzazione del suo celebre The Big Ideal TM: il contesto culturale e le tensioni che lo attraversano incrociano il mood valoriale del brand e la sua propulsione archetipale, per originare un messaggio di valore che è la base della costruzione di una campagna o di un brand. Questa intersezione di valori e contesto dà vita al purpose che muove ogni marca.

2. Target o cluster?

Alcuni concetti si sono affermati come basi inossidabili delle strategie di marketing, al punto che è difficile metterli in discussione.

Ma quanto è importante definire una buyer persona? Quanto è utile il cluster generazionale e quanto invece è limitante? Categorizzazioni come Baby Boomer, Millennail o Gen Z sono macro-segmenti realistici o meri strumenti di marketing?


Il contesto storico di nascita influenza indubbiamente i comportamenti di acquisto e la sensibilità a certi bias cognitivi. Di contro, le nuove generazioni si riconoscono sempre meno in una categorizzazione rigorosa e negli archetipi generazionali. Infatti, negli US, solo il 45% dei Millennial e il 39% della GenZ si definiscono come tali, affermando un’identità che cerca di svincolarsi da classificazioni, stereotipi e limitazioni. (Fonte: The Atlantic)

L’archetipo generazionale non è privo di senso. Il narcisismo dei Millennial o l’attenzione alla sostenibilità della GenZ sono trend realistici, che non devono però diventare verità assolute.

Ritengo, però, che il valore di questi dati risieda nel breve periodo: nell’ideazione di concept di campagna coinvolgenti, nello storytelling, nella creazione di contenuti ad alto impatto per generare awareness.

Lo stereotipo è quindi molto utile se usato in fase di stimolo-coinvolgimento nelle prime fasi della consumer pathway. Viceversa, diventa inefficace o controproducente in fase di nurturing.

Nel lungo termine, quindi, una community attiva o un target “caldo” sono meno sensibili alle logiche da cluster, e devono essere invece coinvolti con contenuti e informazioni realmente ficcanti, risultato, ad esempio, di uno studio approfondito degli small data.

Non è un caso se la conferma di questa visione ci arriva proprio dalle ultime generazioni di Creator, che si rivolgono ai giovanissimi senza considerare la propria appartenenza alla GenZ: i contenuti creati sono quindi sempre più liberi da etichette, fluidi, non categorizzanti.

3. Creator di content, creator di community

La community è uno dei pilastri di una holistic digital marketing strategy, è una chiave interessante per interpretare e migliorare soprattutto i KPI di lungo periodo, quali retention, loyalty e reputation.

I principali social network, in passato considerati capisaldi del community building, stanno abbandonando questa funzione.

Su Facebook, il 2021 ha segnato il punto più basso della reach organica di tutti i tempi, costringendo molti brand ad aumentare gli investimenti nei Like Ads. L’aumento di follower, ovviamente, non si traduce automaticamente in una community viva e ricettiva.

Instagram e TikTok, per loro stessa natura, non favoriscono il dialogo. Per questo sempre più spesso i brand migrano per cercare di costruire community esterne sia ai propri profili/pagine, sia alle piattaforme stesse.

Le soluzioni che stanno emergendo per riappropriarsi del dialogo con utenti e clienti sono due.

La prima è quella che invita a spostarsi su piattaforme meno generaliste e meno note al grande pubblico, ma che incentivano la creazione di community più intime, di valore. Gli utenti sono convinti e consapevoli della qualità dei contenuti di cui fruiscono, tanto da voler addirittura pagare. Due esempi su tutti:

  • Substrack: soluzione più intima ed esclusiva, per pochi, spesso a pagamento, dove la community è accomunata anche dall’assegnare un valore ai contenuti che segue e il suo essere attiva è in funzione proprio della responsabilità che la stessa fee le conferisce.
    Un dato: da dicembre 2020 a febbraio 2021 gli utenti paganti sono quasi raddoppiati.
  • Twich: piattaforma di streaming, dove ogni giorno milioni di persone si trovano live per chattare, interagire e creare da soli il proprio entertainment in ottica di creazione di contenuti, anche in questo caso monetizzabili.
    Un dato: nel 2021, 140 milioni di visitatori unici al mese passano in media 95 minuti al giorno ad assistere e interagire con i contenuti di 9,5 milioni di streamer.

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La seconda via è l’arruolamento dei Creator, incaricati di produrre contenuti utili e remunerati dalle aziende. L’obiettivo è costruire un dialogo non più sui canali proprietari dei brand ma su quelli dei Creator stessi. Le community, che per loro natura sono spazi per “dare” prima che “ricevere”, arricchiscono la loro appetibilità grazie alla competenza dei Creator nel creare UGC realmente utili.

In questi spazi i brand vengono percepiti non come ingombranti padroni di casa, ma come una presenza a supporto. Allo stesso tempo, l’entertainment e l’utilità di contenuti sempre più puntuali vengono riconosciuti dagli utenti come valevoli e meritevoli di essere remunerati, anche indirettamente, accettando sponsorship dei brand.

Per concludere, se da un lato queste riflessioni vogliono essere un dialogo aperto e si presentano pronte per essere incluse in un ragionamento complesso e tutt’altro che lineare, che è la strategia, dall’altro non posso non pensare che nel 2022 una strategia olistica di marketing dovrà orientarsi sempre di più anche verso un re-budgeting che coinvolga investimenti su queste variabili, inserendole in un piano di comunicazione continuativo.

 

 

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